mercoledì 12 dicembre 2012

Le rovine e gli osti (James Joyce)


Le rovine e gli osti (James Joyce)

pubblicata da Graziano Cecchini RossoTrevi il giorno Venerdì 24 giugno 2011 alle ore 1.02 ·
SCRITTORI STRANIERI IL TOUR DEI SENSI INQUIETUDINI ROMANE JAMES JOYCE: «ROMA MI FA PENSARE A UN UOMO CHE SI MANTENGA COL MOSTRARE AI VIAGGIATORI IL CADAVERE DI SUA NONNA»
Le rovine e gli osti
Estasi e malinconia nella letteratura di tutto il mondo ispirata da Roma

E i Fori? E le meraviglie di Roma antica? «Carrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, di fotografie. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna». Sprezzante il giudizio di James Joyce nel 1906 sulle contrastanti ed eterne emozioni che la città ha regalato agli scrittori stranieri. Altro che «gran tour»: chi ha lavorato col pensiero e con le lettere, negli ultimi secoli non ha potuto prescindere da una tappa romana. Un elenco sterminato: Browning, Hawthorne, Zola, Dickens, Freud, Gogol, James, Chateaubriand, Madame de Staël e naturalmente Goethe, per nominarne appena una piccola parte. E non contenti di godersi questa straordinaria stratificazione millenaria delle civiltà, hanno fatto più o meno quello che veniva loro meglio: ne hanno scritto. La storia letteraria del rapporto tra Roma e gli scrittori stranieri forma tranquillamente una biblioteca, che si è andata arricchendo negli ultimi anni di una collana in più: i libri che raccolgono i pensieri di questi scrittori. Paola Frandini, ormai più di vent' anni fa li raccolse sotto un titolo fulminante L' anfiteatro della crudeltà. Roma nella narrativa straniera dell' 800. Attilio Brilli di volumi ne ha scritti addirittura tre, tutt' intorno al viaggiare in Italia e al Gran Tour. Cesare De Seta mise a confronto Viaggi narrati e viaggi dipinti. Ed è solo di due anni fa il bel volume di Sergio Campailla Gli scrittori stranieri raccontano Roma (Newton Compton, 2008), figlio di un convegno internazionale che si era tenuto due anni prima. L' ultimo è Valerio Magrelli che in un volumetto per i tipi Laterza ha appena pubblicato Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri. Conscio di andare a inserirsi su uno scaffale tanto nutrito, Magrelli mette le mani avanti e il suo lavoro comincia riproponendo una curiosa citazione di Heinrich Heine che già Attilio Brilli aveva usato come precauzione alla lettura: «Non c' è niente di più noioso al mondo, che leggere una descrizione del viaggio in Italia, tranne forse lo scriverla». Aggiungendo, come si farebbe con un pizzico di sale ad insaporire una pietanza, il racconto della lapide posta sulla facciata di una casa di Broadstairs, in Gran Bretagna: «Dickens non ha vissuto qui». È vero, sarebbe forse più semplice citare luoghi romani «non» visitati. Ma non ci aiuterebbe a capire come e attraverso quali percorsi, Roma ha rappresentato una inquietudine spesso irrisolvibile per le menti più brillanti della letteratura, delle arti, della musica. Per l' intelligenza. Sigmund Freud ne ha fatto quasi un' ossessione, visitando molte volte l' Italia prima di raggiungerne il cuore, arrivando a paragonarsi ad Annibale, che dalle Alpi arrivò a Canne ma le mura di Roma non le vide mai. Il padre della psicoanalisi invece ci tornò per sette volte, a partire dal 1901, senza mai arrendersi del tutto, da saggio, ad un amore che non riusciva a vivere serenamente. Certo, a Roma coltivò a lungo il rapporto con l' arte, col Mosè di Michelangelo capace di ispirargli un saggio che ha continuato a ritoccare fino alla morte. Ma rimane un contrasto violento tra l' emozione che lo paralizza davanti al Pantheon («Ecco dunque ciò di cui ho avuto paura per anni»), decisioni improvvise («Roma sarà la città della mia vecchiaia»), e lamentele («È cara e rumorosa»), mentre due ore a dorso di mulo per raggiungere Tivoli gli ispirano forse la lettera più divertente scritta alla sua famiglia. Le rovine e la sporcizia, l' inconcepibile vitalità noncurante dei romani, la propensione al crimine che accomuna ladri e osti: ecco le angosce condivise da questo strano tipo di viaggiatori. Temperate dall' estasi per il clima, dalla bellezza dell' arte e dal prodigio di praticità e gusto che accomuna l' intraprendenza dei romani agli osti. Sì, gli osti sono in tutte e due le categorie, ma è un destino che hanno mantenuto fino ad oggi, quindi perché stupirsi? Charles De Brosses scrive: «Siamo condannati ad essere scorticati da l' oste». Joyce, che frequenta con la moglie Nora e il figlio George, la trattoria greca di via Condotti, annota: «Iersera abbiamo mangiato minestra, spaghetti al sugo, mezza bistecca, pane, formaggio, uva, mezzo litro di vino, che è come acqua, roba scadente. La frutta è carissima». Friederich Nietzsche scomodava Zarathustra per definire il suo albergo «il luogo più indecente del mondo». C' è qualcosa di innaturale nelle testarda vitalità di questa città che non vuole arrendersi alla polvere, a dispetto dei millenni e delle alterne fortune. Si nutre di se stessa, come il Colosseo saccheggiato per le facciate delle basiliche, ma agli occhi giovani provenienti da giovani nazioni tutto questo appare una profanazione della morte. Il poeta Shelley la definisce «la città dei morti, anzi di coloro che non possono morire, dei sopravvissuti». Ma nessuno di loro potrà fare a meno di essere letteralmente travolto dalla mole di testimonianze archeologiche e artistiche. Tanto da affidare a queste impressioni il valore di formazione destinate ad essere restituite nei diari, nei romanzi, nelle lettere della loro vita. E non solo per l' abbagliante straordinarietà di una Cappella Sistina o per le quadrerie sparse nelle case nobiliari romane, ma proprio per la ricchezza malinconica e dispersa in una città che sembra - da sempre - non averne coscienza. RIPRODUZIONE RISERVATA

Fallai Paolo
fonte Corriere della Sera

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