venerdì 22 giugno 2012

Ma io resto sulla costa della Troade


Ma io resto sulla costa della Troade - di Franco Cardini con commento di Antonio Pennacchi

Categoria: Interpretazioni
Postato da: Faust Cornelius Mob
franco-cardini-scrittore
Una delle caratteristiche per le quali Anonima Scrittori ha voluto essere contraddistinta fin dall’inizio della propria incarnazione di rivista web è la qualità degli interventi pubblicati. Per questo, quando abbiamo letto questo stupendo articolo dello storico Franco Cardini, non abbiamo potuto esimerci dal pubblicarlo sulla nostra home page. E’ quindi per noi motivo di orgoglio presentarvelo arricchito da un commento di Antonio Pennacchi.
Fonte : Totalita.it - direttore : Simonetta Bartolini

MA IO RESTO SULLA COSTA DELLA TROADE

In risposta a un invocato “Ritorno a Itaca” – cioè alla purezza delle Origini – dell’ex estrema destra italiana, accaprettata da Berlusconi.
A Itaca, o da qualunque parte dell’Ellade veniate, cari camerati, tornateci voi. Io sono vecchio: e passata la settantina andar per mare è da imprudenti, oltre al fatto che si perdono tanti bei piaceri ed invidiabili vantaggi; forse non si diventa nemmeno tanto più saggi (anzi, per la verità c’è il pericolo di rimbambire), ma in cambio si acquista l’impagabile diritto di dir ormai quel che si vuole.
Cari fratelli di non  so più quale sponda, siamo stati felici anche quando eravamo o ci ritenevamo o fingevamo di essere degli Arrabbiati. In fondo, il mondo era nostro: di noialtri happy fews, di noi emarginati e ghettizzati, odiati e disprezzati, discriminati e perseguitati, ma anche Signori dell’Isola-Che-Non-C’è, Sovrani dell’Aghartha misteriosa, Custodi dell’Ultima Dimora Accogliente al di là della quale c’è l’Ombra che si allunga da est, Sentinelle dell’estrema ridotta che veglia sul Deserto dei Tartari. Ed era nostro anche l’Avvenire: quello del Mito e dell’Apocalisse, anche se non proprio quello della Storia.
Era una strana follìa, la nostra. Chi prima chi dopo, tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del Novecento – per mezzo secolo circa, e non è poco… - abbiamo continuato a viver intensamente e appassionatamente di politica e qualcuno anche a morirne: eppure, non è che facessimo sul serio politica nel senso proprio e corrente di tale termine. Quella, ci ripetevamo, erano i politicanti e i politicastri a farla: e il politicume non c’interessava. Erano i nostri miti, quelli che inseguivamo. L’Europa che non c’era mai stata anche quando era sembrato che ci fosse, gli dèi che muoiono e che risorgono di cui parla Drieu La Rochelle, la Nazione strettamente legata alla Giustizia Sociale, l’Europa consumata nel rogo di Berlino e schiacciata dai carrarmati sovietici per le strade di Budapest. La Tradizione risplendente di sole dorato e il Fascismo immenso e rosso. Anche dall’altra parte, per noi boscevichi e borghesucci non erano nulla di concreto: erano grotteschi fantasmi creati nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende. Non avevamo certo tempo di smontar da cavallo per guardar cosa ci fosse sotto le pieghe del Capitale di Marx, o dentro gli armadi delle banche di mister Adam Smith. A sistemar quella paccottiglia bastavano una riga di Nietzsche, un verso di Pound, un aforisma di Sorel. Com’è bello, al limite quanto è comodo, essere dei puri e assoluti Sconfitti! Che ebbrezza sentirci liberi dalle avvilenti responsabilità reali e concrete, esenti da mediazioni e relativizzazioni, perfettamente intangibili dinanzi al sudore e al fango di chi, vincendo, era obbligato a sottostare al giogo umiliante del mondo!
Intanto, attorno a noi, si srotolava la Commedia Umana di chi invece viveva del nostro entusiasmo e del nostro amore per le Vette innevate. Avvocaticchi e onorevolucci avvinghiati ai loro collegi, amministratori oculati del ghetto dove si agitavano bravi e onesti travet del nostalgismo littorio e ragazzacci rissosi che si divertivano a picchiarsi pur da soli contro dieci: picchiatori il più delle volte a loro volta picchiati. Loro si arrampicavano sulla roccia del nostro entusiasmo; entravano in Montecitorio e Palazzo Madama grazie ai manifesti che noi attaccavamo di notte; distribuivano stentorei A noi! durante grevi cene cameratesche e quindi, sottobanco, svendevano al politicantume clericale e moderato i voti raggranellati nel nome della Rivoluzione affinché venissero metabolizzati in moneta corrente e politically correct: biglietti della Banca del Trasformismo e cambiali pagabili alla Borsa dello Scambio dei Piccoli Favori. Fu così che, da Michelini a Fini, si bruciarono i nostri entusiasmi e si consumarono le nostre illusioni.
Ritualmente, a intervalli più o meno regolari, le nostre successive generazioni si svegliavano dal sogno incantato e se se andavano. Spesso sbattendo la porta; più sovente alla chetichella e a testa bassa. Chi cercava un lavoro, chi si faceva una famiglia, chi pensava alla carriera, chi si accorgeva di aver intanto cambiato idea, e chi si rendeva conto di non averne mai avuta una al di là dei simboli e degli slogan,spesso démodés e di cattivo gusto. Qualcuno, come Roberto Mieville o Adriano Romualdi, moriva. Qualcun altro, come Roberto Vivarelli o Beppe Vacca o Giulio Salierno o Carlo Mazzantini o Stanis Ruinas o Antonio Pennacchi o i “ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini, passava al “nemico” (ammesso che fosse quello il nemico): magari per un paradossale eccesso di coerenza e di fedeltà, come forse sarebbe accaduto a Berto Ricci se non fosse andato lucidamente e disperatamente a cercar la Bella Morte.
Eppure, qualcosa era rimasto. Finché – politicantismo parlamentare e ipocrisia di federali e di funzionari a parte – le condizioni politiche ci obbligavano nel Msi e dintorni a un iterato nondum matura est, restava l’illusione di essere degli emarginati perché, in un mondo di vili e di corrotti, noialtri eravamo nonostante tutto migliori degli altri. Finché c’erano gli altri a considerarci diversi, a ripetere che il miglior fascista era quello morto, la nostra Voce poteva pur orgogliosamente dirsi quella della Fogna. Nell’immenso oceano delle idee confuse sì ma non certo poche, nel Grande Magazzino di noialtri Eversivi e Refrattari, c’era tutto e il contrario di tutto. C’erano il Sacro Romano Impero e la Vandea, la fedeltà al Re (“Dio guardi!”) e al Papa-Re, ma anche la Rivoluzione sociale e il mito – nato “a sinistra”, contro il Trono e l’Altare, scivolato “a destra” contro  la sovversione materialistica – della   Nazione.
Che cos’era dunque la Destra, che cos’era la Sinistra? Se lo sono chiesti in tanti, ce lo siamo chiesti in tanti, prima di Giorgio Gaber. A suo tempo, qualcuno ha dato perfino ascolto ad Armando Plebe e un po’ tutti abbiamo giocato al quiz proposto da “L’Espresso”, quello col cane di destra e il gatto di sinistra, la vasca da bagno di destra e la doccia di sinistra, il bluson noir e gli stivali a punta di destra e l’eskimo innocente di sinistra, Battisti (nel senso di Lucio) di destra e Guccini di sinistra. Quando avevo vent’anni e mi piacevano Nietzsche, Sorel e un po’ anche Bakunin, ero missino ma la destra non mi diceva nulla: mi piaceva il gesto di D’Annunzio che scavalca i banchi parlamentari correndo a sinistra, “verso la vita”, mentre sapevo bene che Mussolini aveva scelto per la sparuta pattuglia dei deputati fascisti entrati di fresco a Montecitorio la destra come cosciente provocazione contro la “Destra” e la “Sinistra” storiche dell’Italietta. Se il pugnale del Lucheni a lacerar la carne dell’imperatrice Elisabetta mi appariva già da allora un sacrilegio blasfemo, vedevo in cambio in Gaetano Bresci che spara al “Re Buono” un giusto vindice dei cannoni dell’infame Bava Beccaris puntati a zero contro la povera gente;  e un giovane geniale universitario, Gabriele Truci – filosofo e musicologo, beethoveniano di stretta osservanza, caduto a ventitré anni dal cielo sullo Starfighter che guidava come sottotenente d’aeronautica – mi confortava nel mio “fascismo di sinistra” figlio sia pur discolo della gloriosa Unione Sindacale Italiana; contemporaneamente a quella scelta storico-politica, però, mi affascinava la “Destra cosmica” proposta da Attilio Mordini, da Fausto Belfiori, da Primo Siena: gli eletti alla Destra del Padre, il Destra versus Sinistra come il Sopra divino contrapposto al Sotto infero, Luce contro Tenebra. Del resto ero cattolico, come con qualche occasionale debolezza sono grazie a Dio sempre rimasto: e mi sentivo fermamente, solidamente ancorato alla Dottrina Sociale della Chiesa, alla quale amavo avvicinare la bozza di costituzione della Repubblica Sociale, i “Diciotto Punti di Verona”, almeno per i capitoli dedicati all’economia e alla socialità. Il mio ideale sarebbe stato la quadratura del cerchio, la composizione di quell’ossimorico enigma, la conciliazione tra Sinistra storica e Destra ontologico-metafisica.
Ma ci si poteva accontentare anche di meno. Per molti di noi, la Destra stava nell’inginocchiarsi dinanzi all’Altare della Patria; per molti altri, nel sogno di vederlo saltar in aria. Si stava “a destra” con De Maistre e con Donoso Cortés, con Schmitt e con De Unamuno; ma anche con Sorel e con D’Annunzio, con Mussolini e perfino con Perón; qualcuno, tra anni Settanta e anni Ottanta, decise di stare “a destra” perfino col “Che” Guevara. Si evitava accuratamente di porci qualche imbarazzante questione: stendevamo un velo pietoso, e forse anche un po’ ipocrita, su quello che per analogia con il “socialismo reale” potremmo definire il “fascismo reale”, quello del compromesso con il capitale, della repressione poliziesca, del colonialismo tardivo ma non meno feroce, del razzismo e del genocidio. In quanto “fascisti immaginari”, ci autoassolvevamo da colpe e da doveri di critica: la nostra emarginazione ce lo consentiva in quanto non c’imponeva né discussione né verifica. Il nostro sogno era la conciliazione fra Tradizione, Nazione e Giustizia Sociale; e quindi l’avventura cavalleresca, Ungern e Harrer, Lawrence d’Arabia e i mercenari “cuori-di-tenebra” nel Katanga. Mitologia, mitopoietica, metapolitica, antipolitica.
Un po’ più di rigore storico, forse, sarebbe stato necessario e – come si recita nelseder pasquale ebraico – “ci sarebbe bastato”. Allora avremmo visto bene, e ce ne saremmo accorti con chiarezza, come la radice dei nostri malintesi e dei nostri disagi stava tutta – Zeev Sternhell lo ha spiegato bene – nel groviglio di eventi e nel piano inclinato di malintesi maturato tra la “rivoluzione” del 1830 e quella del 1848, quando le borghesie europee, impaurite per l’ascesa del Quarto Stato, avevano mischiato le loro idee, le loro aspirazioni e i loro interessi “nazionali” con una buona dose di quelle istanze “tradizionaliste”, che fino ad allora erano state proprie di una  Destra cattolica, legittimista e comunitarista che esse avevano fino ad allora odiato e considerato come massima nemica. Da quel foedum impius tra cascami della Tradizione e borghesie “nazionali” era derivato tutto il resto: quello era stato – cari camerati che volete tornare a Itaca – il “cavallo di Troia” attraverso il quale capitalismo, borghesismo e liberismo, agitando lo spauracchio del “Quarto Stato”, si erano insinuati in quel che restava del bastione antimoderno compromettendolo del tutto.
Perché la radix omnium malorum, non dimentichiamolo, è la rivoluzione della Modernità intesa anzitutto come individualismo e come Volontà di Potenza connessa con l’inversione – maturata tra XII e XVI secolo e sfociata nella follìa conquistatrice e rapinatrice del mondo – del rapporto tra produzione e consumo, quindi con il primato dell’economico e con il processo di secolarizzazione che ha desacralizzato il potere politico e del quale le Chiese cristiane storiche dell’Occidente sono esse stesse corresponsabili. Individualismo e Volontà di Potenza che ci hanno strappato dall’antica, millenaria regola secondo la quale si produce per consumare; che ci hanno obbligato a consumare sempre di più per produrre sempre di più in una ruota dei dannati che ci ha costretti a inghiottire il mondo senza per questo saziarci; che ci hanno resi schiavi delle regole del profitto e del progressismo faustiano, il cui principio consiste proprio nella distruzione progressiva di qualunque “cultura del limite”. La grande apostasia è cominciata quando l’Europa ancora cristiana ha definitivamente accantonato la prospettiva scolastica del rapporto tra homo communitas come un rapporto tra imperfezione e perfezione, e quindi della perfezione della comunità di fronte all’imperfezione del singolo individuo, che non diventa persona se non nella sua dimensione sociale, nel suo rapporto con gli altri. Quella prospettiva era fondata sulla base di un’unità e di una gerarchia esistenti nella società in analogia con quelle che reggevano il cosmo, perché “sicut homo est pars domus, ita domus est pars civitatis: civitas autem est communitas perfecta, ut dicitur in I Politicae. Et ideo sicut bonum unius hominis non est ultimus finis, sed ordinatur ad bonum commune, ita etiam et bonum unius domus ordinaretur ad bonum unius civitatis, quae est communitas perfecta”, e di conseguenza, “bonum proprium non potest esse sine bono communi vel familiae vel civitatis aut regni” (Thomae Aquinatis Summa theologiae, I.a. II.ae, q. XC, art. 3 e II.a II.ae, q. XLVII, art. 10, sulla scorta della Politica aristotelica). Tutte le grandi civiltà dell’antichità e per quel che ne sappiamo dello stesso medioevo occidentale si sono naturaliter ordinate a questo principio che Tommaso lucidamente codifica in pieno Duecento: qui sta il nucleo forte e profondo della natura umana, dell’homo politicus che in quanto tale è anche homo religiosus, quindi del fondamento stesso di quel “diritto naturale” che oggi, lontano dal dogma e a oltre mezzo millennio dall’avvìo della rottura apostatica, appare tanto arduo non solo a restaurarsi, ma anche a definirsi per il presente; poiché il faustismo, una volta accettato in parte e ancorché in inizialmente limitata misura, diventa inarrestabile e conduce fatalmente alla legittimazione dell’ homunculus.
In fondo, cari amici, con molti errori e con una prospettiva neopagana e immanentistica di fondo, che quanto meno a me cattolico lo rendeva inaccettabile, tutto ciò era stato sul serio spiegato con una qualche efficacia nella Rivolta contro il mondo moderno di quell’a noi ben noto Innominabile Jettatorio Barone dal magistero del quale in un modo o nell’altro, almeno noialtri nati fra il ‘30 e il ‘60, siamo stati tutti toccati e al quale dobbiamo pertanto esser tutti grati.
Ma forse il potere logora davvero soprattutto chi non ce l’ha. Privi di Maestri e provvisti di rozzi metodi artigianali, lontani dai centri nei quali il pensiero poteva essere agevolmente ed efficacemente elaborato, ridotti alle nostre piccole “università” autarchiche di covi di periferia in cui si studiava su libri comprati di seconda mano, non siamo stati – sia pur magari senza colpa – all’altezza della situazione che abbiamo dovuto affrontare nel mezzo secolo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’effimero fallace avvento dell’era della Megapotenza Unica mondiale e del “pensiero unico”. Stavamo passando, come ha detto Zygmunt Baumann, dalla “Modernità solida” ben certa dei suoi valori individualistici ed economicistici alla “Modernità liquida”, o “Postmodernità”, che li avrebbe invece messi in discussione: avremmo dovuto egemonizzare questa fase di passaggio, invertire magari il ciclo storico, metterlo in discussione e postularne perfino la reversibilità. Non ne siamo stati capaci. Ci ostinavamo, per provincialismo e per ignoranza, a parlar ancora in termini tardottocenteschi e a baloccarci con oziose desuete questioni mentre il mondo se ne andava per conto suo. Le lobbies multinazionali lo stavano divorando e inquinando, eppure noi non ce ne accorgevamo. La follìa dello sfruttamento e la cecità dell’iperprogressismo tecnologico facevano della terra un immenso deserto e lo chiamavano Libertà e Democrazia, mentre noialtri fascisti immaginari continuavamo ancora ad accapigliarci per stabilire se si dovesse stare con le Giacche Blu o con quelle Grige, con i garibaldini o con i Borboni, con D’Annunzio o con Mussolini, con il “fascismo-movimento” o con il “fascismo-regime”, con i falangisti o con i carlisti, con le SA o con le SS, con i “berretti verdi” o con Giap e Ho-Chi-Min, con il socialismo sionista dei kibbutzim o con il “socialismo arabo” di Nasser.
Ma è poi sorta l’alba livida del disincanto, e dopo di essa abbiamo perduto il diritto di  fingerci innocenti. Sono venuti i giorni in cui l’uva è miracolosamente sembrata infine matura per noialtri piccole volpi. Bastava camuffarsi solo un pochino, cedere su qualche principio che l’improvvisa opportunità c’invitava a considerar secondario, vendere appena qualche brandello dei nostri inutili sogni romantici, et voilà:  ecco che chi fino ad allora aveva sognato come massimo traguardo della sua vita un posticino di consigliere comunale si trovava sottosegretario; chi aveva sperato ardentemente di diventar segretario federale si trovava in Senato senza aver nemmeno capito bene come ci fosse arrivato; chi aveva gridato al miracolo perchè i brandelli di lottizzazione di cui gli era toccato qui e là di godere lo avevano portato al livello di caposervizio, ora si vedeva fiondato dietro la scrivania di mogano e cristallo dei Direttori Megagalattici di Rete.
Ed è così che il Burattinaio di Arcore, comprandosi a un tanto al chilo il nostro intemerato rigore e la nostra specchiata onestà, ci ha aiutato a liberarci dai miti e dai sogni: prima Fiuggi, poi la disgregazione della solidarietà interna frammentata in una miriade di cosche e di nicchie, infine il Magnus Opus, il solve et coagula del Popolo delle Libertà dove tutte le vacche eran bige e dove gli ex bravi ragazzi che per decenni si erano rifiutati di piegarsi al mito conformista della Resistenza  scoprivano lietamente il fascino di “quei bravi ragazzi venuti in Europa per darci la libertà” e applaudivano all’esportazione della democrazia nel Vicino Oriente, incuranti di quel po’ di “fuoco amico” e di “danni collaterali” che ciò poteva comportare. Qualcuno, più audace, si spinse oltre, fino all’apologia dei libertarians statunitensi paragonati ai cavalieri medievali e alla lode della  magna Europa liberal-liberista d’Oltreoceano proposta come esito della Tradizione da ex “reazionari cattolici” tutti d’un pezzo frettolosamente convertiti al Verbo theoconservative.
Potrei parlare a questo punto, e con ottima cognizione di causa, di qualcuno di voi; potrei snocciolare nomi cognomi e sequenza delle scivolate, dei compromessi, delle furberie, della ventata di megalomania nei mesi nei quali tutta Roma dal Gianicolo a Via Veneto e dalle terrazze ai salotti (altro che borgate, altro che Acca Larenzia!) gli pareva sua e aveva telefoni e segretarie o sperava di averne a breve; e sarebbe facile ironizzare dei suoi eroici furori ora che tutto è finito e della sua lieve dimenticanza che nessuno – a parte le Uri nel Paradiso di Allah, che sia sempre benedetto il Suo Nome – nessuno può riconquistare la verginità perduta. Non lo farò, per un senso di pietas.
Parlerò invece del caso che conosco meglio: il mio. Perché no? Per alcuni mesi, fra ‘94 e ‘95, ho accettato di rimettermi in pista dopo che, trent’anni prima, ero uscito dal Msi fiorentino e dalla Direzione Nazionale Giovanile, ero stato nella Giovane Europa di Jean Thiriart e avevo avuto la mia brava “primavera rossa”. Dai primi anni Settanta mi ero ritirato dalle scene politiche d’ogni sorta, pensando solo a studiare e a portar avanti una modesta attività pubblicistica: avevo fatto un’eccezione solo per le iniziative di Marco Tarchi che nei primi anni Ottanta si erano attirate le ire e le scomuniche di Norberto Bobbio e della sua chiesa, e per “Il Sabato”, che allora appariva una promettente tribuna di anticonformismo e di libertà. Fui poi attratto dall’invito a “rientrare in pista” nel fatidico 1994. Per breve tempo, allora, sperai che Irene Pivetti potesse davvero divenire la nostra nuova Giovanna d’Arco, la nostra nuova Eva Perón. Più tardi, ho sinceramente lavorato insieme con Marzio Tremaglia alla costruzione di un soggetto politico-culturale serio e credibile, e ancor oggi, quando ripenso ai suoi quarant’anni stroncati, mi pongo inutilmente seri problemi di teodicea; e sulla sua tomba, come su quella dell’indimenticabile fraterno amico Marco Tangheroni, ho deposto le mie cinque rose rosse, quelle che i falangisti dedicano aicamaradas fallecidos in ricordo delle Cinque Piaghe del Signore e delle cinque frecce di Ferdinando il Cattolico. Ci ho sperato, in quelle due ultime occasioni: l’amico Marco Tarchi, più giovane anagraficamente ma tanto più saggio e prudente di me sul piano caratteriale e tanto più rigoroso di me su quello intellettuale, mi aveva pur diffidato dal farmi illusioni. Aveva ragione lui. Non mi pento tuttavia di quegli esperimenti, come non mi pento delle sperimentazioni culturali tentate con Renato Besana e con Beppe Tagliente (il “Toson d’Oro” di Fermo) e dell’avventura di “Identità Europea” avviata con Adolfo Morganti e che ancora continua, per quanto in quel contesto mi sia autodegradato a semplice iscritto.
Per tutte queste cose non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi, nulla per la quale fingere miserabili amnesie. Sono stato petit commis d’état come consigliere di amministrazione Rai voluto dalla Pivetti e come consigliere di amministrazione di Cinecittà scelto da Veltroni per quanto sapesse benissimo che io ero (parole sue) “di un’altra parrocchia” rispetto alla sua. Conservo molta riconoscenza per la fiducia che entrambi mi hanno accordato e per le opportunità che mi hanno offerto. Ho cercato di ricambiarle facendo del mio meglio, cioè lavorando con coscienza e con onestà: ho fatto correttamente tutto quel che potevo e dovevo. Ho anche cercato di cambiare qualche piccola cosa: e lì ho fallito, o il mio successo non è stato né incisivo né duraturo quanto sarebbe stato necessario. Mi guardo quindi bene dal propormi ad esempio e so bene che, in queste cose, la coscienza pulita non basta: è doverosa e necessaria, ma non sufficiente. Grazie a Dio, non ho né il dovere, né tanto meno il diritto di giudicare nessuno.
Tuttavia va detto, cari camerati, che ci sono tanti modi di perdere quella verginità che abbiamo tutti perduto. Per amore, per passione, per tornaconto, per leggerezza, per avidità, per ebrezza, per gioco, per curiosità, per illusione, per violenza propria o violenza altrui. Ma una volta perdutala, indietro non si torna (come diceva Lui). Ormai la via dell’Eden e quella dell’Aghartha sono smarrite, e certo nemmeno le acque, le nubi, gli olivi e rocce di Itaca potranno più nulla: l’incanto si è rotto e chi poi in un modo o nell’altro è stato sulla stessa barca degli Scajola e dei “Trota”, delle Carfagna e delle Santanché, dei Cicchitto e dei Verdini, chi magari entro certi limiti e fino a un certo punto senza nemmeno rendersene conto abbia retto il sacco ai ladri e ai corrotti e si sia reso loro complice (nel nome di che cosa, poi? Dell’anticomunismo? Della diga contro il fondamentalismo islamico?) non potrebbe più tornare a Itaca nemmeno se davvero lo volesse con tutte le sue forze. Non entra nella reggia del divino Ulisse chi ha visto anche alla lontana quella di Arcore; non può più apprezzare il profumo del vino e dell’olio dell’Egeo chi odora anche alla lontana di bunga bunga.
Quanto a me, ho molta simpatìa per il re della piccola sassosa isola vicina a Cefalonia, per l’Orditore d’Inganni che ha parlato con i morti e che ha molto sofferto, Ma non dimentico che egli è anche l’inventore del cavallo che ha conquistato e distrutto la mia prima vera patria interiore. Voi, cari camerati, vi sentite ancora e nonostante tutto dalla parte di chi ha perduto la seconda guerra mondiale, e qualcuno di voi sostiene di aver in fondo perduto anche la prima: io, invece, le ho perse tutte. E qualcuna irreversibilmente: a dirne una, avrei preferito di gran lunga (e datemi pure del filomusulmano) barattare la vittoria del 1571 con la sconfitta del 1578, veder le galee di Juan de Austria e del doge Venier colare a picco nelle acque azzurre di Lepanto pur di assistere poi al  trionfo dei galeoni della Invencible Armada sui plumbei flutti dell’Atlentico, là presso alle coste inglesi. Lepanto non ha cambiato il corso della storia: il prevalere di Filippo II su Elisabetta avrebbe forse potuto. Così come forse lo avrebbe cambiato la vittoria di Antonio su Ottaviano nel limpido specchio marino di Azio, poco più di  un millennio e mezzo prima di Lepanto. Ne abbiamo perdute di occasioni, ne abbiamo avute di scalogne. Ma che nessun nipotino di Hegel venga fuori, per piacere, a parlarmi di senso della storia, di occulti eppur necessari disegni immanenti. L’Imponderabile paretiano, quello sì: ma esso altro non è se non quel che i maghi di Faraone, dinanzi alla verga serpentina di Mosè, definivano ezbà Elohim, il dito di Dio.
Comunque, da parte mia, non ho atteso certo la débacle della Monarchia di Spagna per avviare la mia carriera di avvocato di tutte le cause perse. E non ho atteso nemmeno la sconfitta di Serse a Salamina, per quanto ancor oggi pianga a calde lacrime sullo smacco inflitto al Gran Re da quattro rissosi chiacchieroni greci.  Ho cominciato a perdere le guerre già da prima, fino da subito, molto da prima che il contadino teppista Romolo assassinasse il suo libero fratello, il pastore Remo (ci avete fatto caso, come diceva il grande Aldo Fabrizi, che la storia di Romolo e Remo somiglia pari pari a quella di Caino e di Abele, sempre col sedentario assassino e con il nomade assassinato: e non vi dice nulla, tutto questo, nei nostri tempi di gommoni che approdano a Lampedusa?). Ho cominciato a capire da che parte stare, e che stare da quella parte sarebbe stata la mia sempiterna condanna, fino da quando ho visto il mio signore ferito a morte, lordo di sangue e di fango, legato e trascinato attorno alle mura di Troia dal carro di un macellaio isterico destinato invece, lui, a diventare nei secoli l’eroe della Grecità e della Modernità, con tutti i brigantaggi e le fregature che da lì sono discesi. E ora che ho passato i settant’anni sento di perdere di nuovo la mia  guerra ogni volta che un piccolo afghano viene ammazzato “incidentalmente” dai Portatori di Libertà – poi però la NATO si scusa del disagio arrecato… – nell’indifferenza dei borghesacci che finanziano con le loro tasse gli elicotteri e i droni assassini; o ogni volta che un bambino del Sahel muore di sete o uno nigeriano di AIDS, mentre da noi c’è chi nuota ogni mattina in una piscina olimpionica inquinando una quantità d’acqua che potrebbe bastare a placar la sete di cento villaggi; e al riguardo, pur sapendo bene quanto ineleganti siano le autocitazioni, v’invito a dare un’occhiata a Capire le multinazionali. Capitalisti di tutto il mondo unitevi, di Franco Cardini e Stefano Taddei (Rimini, Il Cerchio, 2012), che vedrete senza dubbio ben poco propagandato dai media, ma del quale si sta già preparando la ristampa.
E veniamo al dunque. Ho discettato abbastanza di Destra e di Sinistra; ho assistito a troppi onanismi intellettuali di mediocre qualità attraverso i quali si giustificavano di fatto la corruzione e l’ingiustizia. Ho vissuto la vita intera tra i libri: molto spesso, anche buoni libri. Ecco perché, cari camerati, la vostra paccottiglia erudita, le vostre smanie palingenetiche ora che il momento della cuccagna è passato, la vostra riscoperta a scoppio ritardato della morale, non m’interessano più. Nella vostra Itaca, si mai davvero ci arrivaste, non riuscireste nemmeno a riorganizzare un Campo Hobbit degno di questo nome. E intanto il mondo continuerà a bruciare senza di voi, ma nella vostra noncuranza e con la vostra complicità. Il vostro Ulisse tessitor d’inganni, cari camerati, non vale nemmeno un’unghia di madre Teresa di Calcutta. Da qualche parte, tra l’Africa e l’America latina, c’è gente che lavora per gli Ultimi della terra, che soffre con loro: i “medici senza frontiere”, quelli di Neve Shalom, i tanti volontari che lavorano anonimi e non retribuiti ad alleviar sofferenze. Quelli sono i veri Cavalieri, mentre molti di voi amano ancora perder tempo attardandosi sui desueti brandelli del “conflitto di civiltà” o baloccandosi con i Neotemplari.
Ho molta, magari perfino troppa stima e molto, magari perfino troppo affetto per molti di voi. Però quando parlate con finta nostalgia di un Passato mai esistito e di un Futuro che non ci sarà mai e che in fondo non v’interessa, mi annoiate. Vi saluterò con affettuosa mestizia, mentre volgete le vostre prore verso Itaca. So che cercate il divino Ulisse tessitor d’inganni, ma vogliano gli dèi che ivi approdati non ci troviate invece, accampati tra quegli omerici scogli, il teschiuto Sallusti che si fa un drink con la Santanchè, o l’ohimè neocredente Ferrara che prende il sole con la signora dall’Olio all’ombra di un  confortevole padiglione decorato stars and strips, o qualche neoconservatore in shorts immerso nell’esegesi di una dotta pagina di Léo Strauss (chi era costui?), o qualche incravattato adepto nostrano del nobile sodalizio lusitan-brasileiro “Tradiçao, Familia, Propriedade” che vi spiegherà con sussiego quale sia l’alta funzione sociale del latifondo, accompagnando la sua lezione con appropriate citazioni tratte da Giovanni Calvino ma travestite da Russell Kirk Lasciatemi ai sassi della mia Troade, alle memorie del mio Ettore domatore di cavalli e al riflesso della pira ardente che ne ha disperso per sempre le ceneri nel cielo.
Franco Cardini
MA ITACA DOV’È?
Le carte sottosopra
Il testo di Cardini, “Ma io resto sulla costa della Troade”, è bellissimo. Non sono esattamente d’accordo con tutto ciò che dice, però il testo è proprio bello sul piano poetico, ossia del pathos e della potenza stessa mitopietica. Sulla questione centrale però – sul tornare a Itaca o meno – credo umilmente che l’errore di fondo di tanti di quei nostri vecchi amici, novelli argonauti, stia nella magnetizzazione delle bussole e nell’orientamento delle loro carte nautiche. Quelli si apprestano cioè ad andar per mare con le carte sottosopra: cercano Itaca a sud quando invece sta a nord (gli argonauti, come è noto, il Vello lo trovarono a est). Ma se quel mondo vuole davvero tornare alle Origini, deve allora tornare a “Sinistra”, non a “Destra”. Mi sono ricapitati proprio in questi giorni studi su Dinale, su Rossoni, Tassinari, Mazzocchi Alemanni, Orsolini Cencelli: il fascismo nasce a sinistra, non a destra, ed è lì che ha lasciato il meglio di sé nella storia e nella geografia dell’Italia e del suo popolo, non certo nelle derive di destra dei deliri di potenza, delle guerre, delle leggi razziali. Il fascismo nasce socialproletario, anticapitalista ed antindividualista, e se quelli non raddrizzano le loro carte e non si comprano una bussola buona, nella pseudo-Itaca che rischiano di trovare non sarà prevista alcuna bonifica dell’Agro Pontino. Littoria non c’è e non ci sarà mai su quell’isola. E se solo si provano a voler tentare un «assalto al latifondo» per dividere poi le terre fra i contadini, li pigliano a schioppettate (chiedessero appunto, per conferma, ai lusitan-brasileiri di “Tradiçao, Familia, Propriedade”. Ma basterebbe pure chiedere solo a Berlusconi).
Vogliono davvero tornare a Itaca, ma quella autentica doc della nazionalizzazione europea delle masse popolari, del senso dello Stato, del welfare e delle bonifiche? Non c’è altra strada che quella di Stanis Ruinas. Formassero un rassemblement e trovassero un candidato – io avrei pensato a Franco Cardini appunto, ma mi vanno bene anche Flavia Perina, Fabio Granata o chiunque altro si preferisca – da contrapporre lealmente a Bersani ed eventuali altri nell’ambito dichiarato del centrosinistra, alle primarie di coalizione che il Pd si appresta ad organizzare. Lì costruiremo, insieme agli altri, la Terza repubblica. Quella è casa nostra, quella è l’Itaca vera: a sinistra.
Torniamo davvero a casa, ragazzi.
Antonio Pennacchi

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noi cani senza lacci ne padroni